Elvio Fachinelli

Freud

CEI, Milano 1972

Dati biografici

1856

Il 6 maggio, a Freiberg, ora Pribor (Moravia) nasce Sigmund, primo nato dal matrimonio di Jakob Freud, commerciante ebreo in tessuti, con Amalie Nathansohn. Il padre ha già due figli, nati da un precedente matrimonio.

1860

In conseguenza della crisi economica, aggravatasi dopo la guerra austro-italiana del 1859, Jakob Freud, semirovinato, si trasferisce definitivamente a Vienna. I due fratellastri di Sigmund emigrano invece in Inghilterra, a Manchester.

1865-1872

Con un anno di anticipo sulla norma, Sigmund entra allo Sperl-Gymnasium. Carriera scolastica da primo della classe. Nel 1872 supera brillantemente l'esame di licenza e decide di diventare medico, rinunciando agli studi giuridici, dopo aver udito leggere il saggio La natura, attribuito a Goethe. Crack della borsa di Vienna, in cui Jakob Freud perde il suo capitale. La famiglia è costretta per vivere a ricorrere all'aiuto di parenti della moglie.

1876

Prime ricerche di anatomia comparata (conferma l'esistenza di testicoli nei maschi d'anguilla). In ottobre entra all'Istituto di Fisiologia diretto dal prof. Ernst Brücke. Qui conosce Joseph Breuer.

1877-1882

Ricerche di istologia del sistema nervoso nel laboratorio di Brücke.

1881

Dottore in medicina. D'ora in poi sarà pressoché indipendente dai suoi, e verrà aiutato dagli amici medici, in particolare da Breuer.

1882

In aprile, conoscenza di Martha Bernays, con cui si fidanza segretamente in giugno. Dopo un colloquio con Brücke dal quale trae la conferma che non ha prospettive all'istituto di fisiologia, decide di rinunciare alla ricerca pura e di darsi alla medicina pratica. Alla fine di luglio comincia a frequentare i reparti dell'ospedale generale di Vienna.

1883

Breuer informa Freud del caso di Anna O., un'isterica che ha cominciato a trattare con il «metodo catartico» nel 1880. Freud lavora nel laboratorio di anatomia cerebrale della clinica psichiatrica, diretta dal professor Meynert.

1884

Pubblica La struttura degli elementi del sistema nervoso, in cui sostiene, sulla base delle sue ricerche presso Brücke, la unità morfologica e fisiologica delle cellule e delle fibre nervose, precorrendo così la teoria del neurone di Waldeyer (1891). Comincia a studiare le proprietà farmacologiche della cocaina, di cui constata su di sé un energico effetto antidepressivo. Prevede l'azione anestetica dell'alcaloide e suggerisce al suo amico Königstein di saggiarlo nelle malattie oculari. Ma è un suo collega, Koller, che pochi mesi più tardi comincia a «rivoluzionare la chirurgia oculare con l'uso della cocaina». Un intimo amico del tempo di Brücke, Ernst von Fleischl, abusa del nuovo farmaco, pensando di svezzarsi della morfina, e si procura una grave intossicazione.

1885

Primi tentativi di trattamento ipnotico. Nel gennaio presenta al Consiglio di facoltà il suo curriculum vitae accademico — «il primo abbozzo della mia biografia» — per ottenere il titolo di Privatdozent in neuropatologia, che gli sarà concesso il 5 settembre. In giugno vince una borsa di studio per laureati, che gli consente di andare per. sei mesi in un istituto straniero. Il 13 ottobre comincia a frequentare, all'ospedale «La Salpètrière» di Parigi, il reparto di Charcot, il più illustre neurologo del suo tempo. Pur continuando i suoi studi di istologia del sistema nervoso, è a poco a poco attratto dalla psicopatologia, attraverso l'interesse per la concezione dell'isteria d Charcot. Da quel momento diventerà un clinico puro.

1886

Ai primi di aprile ritorna a Vienna; il 25 apre un ambulatorio, che gli darà per molto tempo guadagni assai modesti. I 13 settembre si sposa con Martha Bernays, da cui avrà sei figli. In ottobre presenta alla Società Medica di Viennia un caso di isteria maschile con emianestesia: accoglienza fredda, soprattutto di parte del suo maestro Meynert, che :poco a poco lo esclude dal suo laboratorio. La clientela privata di Freud è composta quasi esclusivamente di nevro tici, che cura con l'elettroterapia, comprendendo però ben presto che l'effetto è di natura suggestiva. Aumentano le se gnalazioni di cocainomania in tutto i mondo, Freud è accusato da Erlenmeyer di aver introdotto «la terza piaga del l'umanità».

1887

In novembre conosce Wilhelm Fliess otorinolaringoiatra berlinese, col quale comincia una corrispondenza che durerà fino al 1902. Abbandona l'elettroterapia per la suggestione ipnotica. Pubblicazioni neurologiche.

1888

Studio comparato delle paralisi isteriche e delle paralisi organiche. Riscontra varie difficoltà nel trattamento ipnotico dei suo pazienti.

1889

Con la signora Emmy von N., applica per la prima volta il metodo catartico d Breuer. In luglio soggiorno a Nancy presso Liébault e Bernheim, per perfezionare la sua tecnica ipnotica.

1891

Pubblica Sulla concezione dell'afasia, dedicata a Breuer, in cui critica la teoria classica dell'afasia ispirandosi all'impostazione funzionale di Huglings Jackson. La famiglia si trasferisce nella Berggasse 19 dove Freud vivrà fino al 1938.

1892

Insieme a Breuer, scrive la Comunicazone preliminare sul meccanismo psichico dell'isteria. In essa sostiene che la causa dell'isteria non è il traumatismo psichico, come voleva Charcot, ma il suo ricordo, che è stato rimosso. «Gli isterici soffrono soprattutto di reminiscenze». In Un caso di guarigione ipnotica, sostiene che l'origine dei sintomi nevrotici risiede nell'esistenza di idee antitetiche a quelle coscienti e di una controvolontà inconscia.

1895

Raccoglie il lavoro degli anni precedenti negli Studi sull'isteria, scritti insieme a Breuer, che però rifiuta di seguirlo nella concezione dell'origine sessuale delle nevrosi. È la fine della loro collaborazione. Di fronte al crescente antisemitismo, aderisce alla loggia massonica ebraica B'nai B'rith.

1896

In un articolo per la «Revue Neurologique», Freud usa per la prima volta il termine 'psicoanalisi'. Dopo un'accoglienza glaciale riservata a una sua comunicazione sulla etiologia sessuale dell'isteria alla Società di psichiatria e neurologia di Vienna, decide di non intervenire più a riunioni mediche. Il 23 ottobre muore suo padre.

1897

Freud pubblica il suo ultimo lavoro di neurologia. In maggio decide di scrivere un libro sui sogni, che ha cominciato ad analizzare nel 1894. In luglio comincia un'autoanalisi sistematica. Il 15 ottobre, annuncia a Fliess la sua scoperta del complesso di Edipo.

1898

Primi screzi aperti con Fliess.

1899

Termina L'interpretazione dei sogni, che compare, con la data 1900, nel novembre 1899. Il libro non ha quasi nessuna eco negli ambienti scientifici.

1900

In agosto, ultimo incontro con Fliess.

1901

Viaggio a Roma col fratello Alessandro. È «il punto cruciale della mia vita», la prima delle sette visite che dedicherà a questa città. Un medico che ha seguito le sue lezioni universitarie, Max Kahane, parla a Wilhelm Steckel del nuovo metodo di cura. Steckel, sofferente di un disturbo nevrotico, comincia un trattamento analitico con Freud.

1902

Per suggerimento di un collega che ha «esperimentato personalmente i vantaggi della terapia analitica» — probabilmente Steckel — Freud comincia a riunire regolarmente nella sala d'aspetto del suo studio, una volta la settimana, i suoi pochi amici e seguaci. È la «Società psicologica del mercoledì», dei cui dibattiti Steckel dà il resoconto nel numero domenicale del «Neues Wiener Tagblatt».

1904

Freud pubblica la Psicopatologia della vita quotidiana, già uscita in un periodico tre anni prima.

Atene. Sull'Acropoli ha un'esperienza psicologica inconsueta, che analizza, trentadue anni dopo, in una lettera a Romain Rolland.

Viene a sapere dell'interesse per la psicoanalisi sorto al «Burghölzli», la celebre clinica psichiatrica zurighese diretta da E. Bleuler, per ispirazione del primo assistente C. G. Jung. Nel 1906 comincia fra i due una corrispondenza regolare.

1907-1910

Deliri e sogni nella "Gradiva" di Jensen, primo esempio pubblicato di applicazione del metodo psicoanalitico a un'opera di fantasia.

Cominciano le visite a Freud: Jung, Binswanger, Abraham (1907), Ferenczi, Jones (1908), Pfister (1909), Sachs (1910), mentre sorgono le prime società di psicoanalisi straniere.

1908

La società psicologica del mercoledì assume la denominazione di «Società psicoanalitica di Vienna». Il 26 aprile, Convegno di psicologia freudiana a Salisburgo, considerato il primo congresso internazionale di psicoanalisi.

1909

Viaggio in America, per invito di Stanley Hall, rettore della Clark University di Worcester, nel Massachusetts, insieme a Jung e a Ferenczi.

1910

Al II Congresso di psicoanalisi (Norimberga, 30-31 marzo) Jung è eletto presidente della Società Internazionale. Dimissioni di Bleuler, diventate definitive l'anno dopo. Freud pubblica Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci. Incontro con Gustav Mahler.

1911

Fondazione del periodico «Imago», dedicato alle applicazioni non mediche della psicoanalisi. Rottura con Adler.

1912

Di fronte ai disaccordi interni, Jones propone di costituire un comitato di pochi analisti fidati, destinato a occuparsi dell'ulteriore sviluppo della psicoanalisi. Ne fanno parte Jones, Ferenczi, Rank, Sachs e Abraham. Esso assume le proprie funzioni, in pratica, dopo la guerra.

1912-1913

Scrive Totem e tabù. «Dopo L'interpretazione dei sogni, non ho mai lavorato con tanta gioia e convinzione. L'accoglienza sarà la stessa...».

1913

Rottura definitiva con Jung.

1914

Di fronte alla guerra Freud ha una reazione immediata di entusiasmo patriottico, che dura non più di quindici giorni. Pochi mesi più tardi scrive a Abraham che l'impotenza e la miseria, che non sembrano molto lontane, sono le cose che ha sempre maggiormente odiate. Pubblica Introduzione al narcisismo, che provoca notevole sbandamento tra i seguaci per le modificazioni alla teoria degli istinti ch'esso presenta.

1915

Dal marzo all'agosto scrive dieci saggi «metapsicologici», sette dei quali, secondo Jones, vengono successivamente distrutti.

1917

Stampa la seconda parte delle Lezioni introduttive alla psicoanalisi. Durante un viaggio in treno scrive Un ricordo d'infanzia da "Poesia e verità" di Goethe.

1919

Fondazione di una casa editrice, l'Internationaler Psychoanalytischer Verlag. In ottobre Freud è insignito del titolo di Professore ordinario dell'università di Vienna.

1920

Morte di Toni von Freund. finanziatore del Verlag e, tre giorni dopo, della figlia Sofia.

Apertura del Policlinico psicoanalitico di Berlino.

Pubblica Al di là del principio di piacere, cominciato nel 1919.

1921

Pubblica Psicologia delle masse e analisi dell'io, concepito contemporaneamente a Al di là del principio di piacere. L'opera e il nome di Freud diventano sempre più noti. André Gide, per la NRF, chiede di poter pubblicare i suoi scritti. Visita di André Breton, fondatore del movimento surrealista.

1922

Congresso di Berlino, l'ultimo al quale Freud sia stato presente.

1923

Si manifesta una proliferazione cancerosa al palato, e Freud si sottopone al primo dei 33 interventi che si renderanno in seguito necessari. Nello stesso periodo, morte di Heinerle, figlio di Sofia, per il quale nutriva una particolare tenerezza.

Pubblica L'io e l'es.

1924

Rank rompe con Freud.

1925

Morte di K. Abraham.

1926

Primo incontro con Albert Einstein. Pubblica Inibizione, sintomo e angoscia.

1927

Screzi con Ferenczi. Pubblica II futuro di un'illusione.

1929

Il disagio nella civiltà.

1930

Per iniziativa del poeta Alfons Paquet e del romanziere Alfred Doblin, gli è conferito il premio Goethe. Morte della madre. «Non m'era permesso di morire finché viveva lei, ora invece posso farlo». Comincia l'esodo degli analisti in America.

1932

La situazione economica della casa editrice si fa pesante, Freud lancia un appello all'Associazione Internazionale di Psicoanalisi affinché se ne assuma la responsabilità in futuro. In marzo riceve la prima visita di Thomas Mann. L'equilibrio psichico di Ferenczi si viene decisamente alterando, e questo porta a un allontanamento personale. In risposta a una lettera di Einstein, scrive Perché la guerra?, pubblicato dalla Lega delle Nazioni.

1933

«La soppressione sistematica degli Ebrei che i nazisti ottengono privandoli dei loro posti è appena cominciata... Il mondo sta diventando un'immensa prigione, di cui la Germania è la cella peggiore». In maggio, a Berlino, rogo dei suoi libri. «Che progressi stiamo facendo! Nel medioevo avrebbero bruciato me...». Le condizioni psichiche di Ferenczi, collegate a uno stato di anemia perniciosa, si aggravano; muore in maggio.

1934

«Dati i recenti decreti vien fatto di chiedersi di nuovo come mai gli Ebrei sono diventati ciò che sono e perché si sono tirati addosso un odio così inestinguibile». Comincia a scrivere Mosé e il monoteismo, argomento che lo ha «perseguitato per tutta la vita».

1937

Su «Imago» escono le prime due parti del libro.

1938

Dopo l'invasione dell'Austria da parte dei nazisti, Freud accetta finalmente di partire. Il permesso gli viene concesso per intervento della diplomazia americana e - pare — di Mussolini. Parte il 4 giugno e pochi giorni dopo, a Londra, scrive a Eitington: «Il senso di trionfo per la liberazione è troppo intimamente connesso al dolore, poiché ho sempre profondamente amato la prigione dalla quale mi han fatto uscire». Visita di Salvador Dali. In agosto esce ad Amsterdam il libro su Mosé.

1939

il cancro contro cui ha lottato sedici anni è ormai inoperabile. «...il mio mondo è

nuovo quello di prima: una piccola isola di dolore galleggiante su un mare di indifferenza». Muore poco dopo la mezzanotte del 23 settembre.

Freud

Un Conquistador

Il 4 giugno 1938, a 82 anni di età, Sigmund Freud lasciava definitivamente Vienna per Londra. Già da alcuni anni la psicoanalisi era pressoché scomparsa dall'Europa centrale; già nel maggio 1933 i libri di Freud erano stati bruciati, a Berlino, come supremo esempio di una cultura 'ebraica', 'non tedesca'. Freud era malato di cancro da quindici anni.

Attraversando la Manica, di notte, fece un breve sogno che la mattina dopo raccontò a uno dei suoi figli. «Ho sognato di essere sbarcato a Pevensey”. Di fronte al suo imbarazzo, dovette spiegargli che a Pevensey era sbarcato, nel 1066, Guglielmo il Conquistatore. L'uomo sfinito che, arrivato a Londra, avrebbe detto di sé: «sono un vecchio ebreo”, conservava dunque ancora dentro di sé l'impulso del Conquistatore, o meglio, del Conquistador («nient'altro che un conquistador per temperamento — un avventuriero, se volete tradurre il termine”) che era stato durante buona parte della sua vita.

L'archeologia del banale

Esso si era manifestato in piena luce anche in altre occasioni. Nel 1909, poco prima di sbarcare a New York, al termine dell'unico viaggio da lui fatto negli Stati Uniti, Freud si rivolse a Jung, dicendogli in modo abbastanza profetico: «Non sanno... che stiamo per portar loro la peste”. Ancora prima, nel 1897, nel momento forse più critico della ricerca sui nevrotici, quando la sua teoria sulla genesi dei disturbi isterici in cui aveva creduto per anni si dimostrò insostenibile, scrisse al suo amico Fliess: «È notevole che io non ne senta vergogna, come potrebbe essere il caso. Certamente non lo dirò in Dan, né lo griderò nelle strade di Ascalon, nella terra dei filistei; ma detto fra noi, ho la sensazione più di un trionfo che di una sconfitta...». E ancora prima — lo sappiamo dall'Interpretazione dei sogni — nella squallida infanzia viennese, aveva sognato il bastone del maresciallo Massena, l'unico ebreo, a quel che si diceva, fra i generali di Napoleone... A questo punto, possiamo chiederci perché affastelliamo dati sparsi in settanta-ottant'anni di vita; e che cosa significa il fatto che dietro l'immagine più nota di Freud, mite 'interprete' della nevrosi, si veda sorgere l'immagine del generale Freud, ch'egli aveva sognato di diventare quand'era ragazzo.

In un certo senso, la risposta che oggi siamo in grado di dare a questa domanda, come la domanda stessa, racchiude un aspetto essenziale della novità freudiana nel mondo della cultura. Trovare nel presente il passato e viceversa, nella passività l'elemento aggressivo e viceversa, cogliere insomma i due termini antitetici di un conflitto radicato nell'uomo — questo costituisce forse il nucleo del metodo psicoanalitico. Ma questo metodo non si può intendere in pieno se non attraverso la singolarità della persona Freud. Il rapporto tra il creatore e la sua opera è in questo caso assai vicino al legame di figliolanza carnale, per così dire, che si stabilisce fra lo scrittore e il suo libro, fra il pittore e il suo quadro, che non al riferimento indiretto dello scienziato con la sua scoperta. C'è qualcosa di irripetibile, che conferisce per sempre alla costruzione freudiana un carattere di unicum culturale e che genera la sempre risorgente difficoltà, di 'collocarla' positivamente fra le altre scienze.

La cosa che Freud ci ha lasciato non è catalogabile con facilità, non rientra negli schemi consueti, anche se spesso si richiama ad essi. Appunto per questo, non rientra neppure nelle leggi della creazione artistica. Freud ha cercato in se stesso, e vedremo tra poco in quale misura letteralmente inaudita, ma in una direzione che è francamente la meno 'artistica' nel senso classico, la meno sublimativa che si possa pensare. Cercava in sé le tracce del banale, del comune a tutti, si interrogava sui suoi sbagli, sui suoi tic, sui suoi sogni, diremmo quasi sugli sbadigli della mente vigile, sulle tendenze minime 'affioranti che una plurisecolare abitudine alla idealizzazione di noi e del mondo ci ha indotto a considerare le scorie, il residuo morto della nostra infanzia. Ha insomma avuto fede assoluta in ciò che l'orgoglio intellettuale disprezzava, e tuttora disprezza, e non per nulla è stato spesso accusato di aver creato la 'psichiatria per le donnette', quando non è stato preso per un cabalista di sogni.

In questo senso, l'unico predecessore abbastanza legittimo che possiamo trovargli non è uno scrittore né uno scienziato, ma un uomo di cui conobbe i libri e che ritorna qua e là nei suoi scritti. È Heinrich Schliemann, l'ingenuo quanto fortunato scopritore della città di Troia. Come Freud, Schliemann tenne fede alla proprio infanzia, alla promessa fatta bambino a suo padre che gli leggeva l'Iliade: «da grande, io scoprirò questa città”. Quarantanni dopo, prestando fede assoluta a Omero, cioè alla propria infanzia, scoprì avventurosamente fra le paludi della Troade l'antica e amata città. («Le mie pretese sono estremamente modeste. Non spero di trovare capolavori dell'arte plastica. L'unico scopo dei miei scavi è stato fin da principio quello di ritrovare l'antica Troia...”). Freud corse lo stesso rischio veramente folle, ai nostri occhi: a un certo punto della sua vita, dall'interno di una formazione culturale fra le più rigide, cominciò a prestar fede ai residui preistorici della sua infanzia, a quella parte condannata di noi che torna nei sogni e nelle fantasie.

Un modello vittoriano

Anche per questa ragione, è difficile parlare di Freud. O forse è più giusto dire che proprio Freud ci ha insegnato a vedere distintamente i limiti, l'inesauribile genericità di' ogni tentativo biografico che aspiri ad essere conoscenza del soggetto. Nel 1936, «spaventato dalla minaccia” di Arnold Zweig di «diventare suo biografo”, gli scrisse alcune righe ormai notissime: «Chi diventa biografo si impegna alla menzogna, a tenere nascosto qualcosa, all'ipocrisia, all'abbellimento di tutto e perfino a celare la propria incomprensione, giacché non è possibile possedere la verità biografica e, pur avendola, non si potrebbe adoperare. La verità non è praticabile, gli uomini non la meritano...”. Tralasciamo pure quest'ultimo accento, amaro, e anche la curiosa contraddizione di chi volle, più volte, e soprattutto in Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci, penetrare sulla base di pochi indizi nel mondo personale di un altro — e dovrebbe perciò ricadere nella condanna senza appello riservata ai biografi. Chiediamoci invece che cos'è, per Freud, e dopo di lui, quella 'verità biografica' che è difficile, se non impossibile, possedere.

Se si leggono le sue analisi di scrittori e artisti, o meglio ancora i casi clinici, il dato psicologico (qualunque esso sia) sembra acquistare a poco a poco una consistenza e stabilità pari a quella di un fatto di osservazione sperimentale. Ciò che però si nota con altrettanta evidenza è il lavoro paziente di penetrazione successiva, strato dopo strato, notizia dopo notizia, attraverso il quale ogni elemento scoperto, che all'inizio ha la durezza del metallo, a poco a poco si corrode, e lascia trasparire una situazione nuova che lo coinvolge insieme ad altri. Ci accorgiamo allora come anche in Freud la verità sia il lavoro della verità — tant'è vero che le sue osservazioni su artisti o malati sono state non certo confermate, come si usa dire, ma sviluppate, portate avanti, fino a un punto che Freud aveva soltanto, o non aveva, intravisto. Di questa natura è anche la 'verità biografica' di cui parlava nella risposta a Zweig. Non certo un dato cristallizzato, fatto feticcio, qualunque sia la sua origine; ma il movimento stesso di avvicinamento a un uomo, in cui si definiscono man mano tutti i suoi contraddittori rapporti con ciò che lo circonda e lo abitò. Probabilmente, questo è anche uno dei pochi modi legittimi di accostarsi al fondatore della psicoanalisi e di valutarne l'opera.

Negli ultimi decenni, accanto alla fondamentale biografia di Jones, si sono avuti isolati contributi e studi critici; ma nello stesso tempo si è venuto costituendo un vasto strato di silenzio ufficiale, destinato, sembrerebbe, a riassorbire completamente Freud nella sua opera, per non essere costretti a occuparsi di fatti e impostazioni personali che non coincidono con l'immagine olimpica che di lui si ha nelle varie società di psicoanalisi. Che questa cautela si accompagni al pericolo di una diminuita comprensione dell'opera stessa, risulta evidente anche a chi non fa professione di psicoanalisi; meno evidente, forse, è il fatto che essa si basa sull'assunzione a 'verità biografica' di dati e particolari considerati a sé stanti, isolati, e perciò sottoposti a una pericolosa degradazione di significato che potremmo chiamare positivistica. Se ora tentiamo di avvicinarci a Freud, ci pare di avere di fronte una superficie unitaria che va sbriciolandosi, mentre affiorano forme nuove, indistinte — un volto enigmatico.

C'è una parte estrinseca della sua vita (non per questo meno reale), un aspetto per così dire eminentemente vittoriano, che gli conferisce quella somiglianza di famiglia comune a tanti ritratti di universitari e dotti del secolo scorso. Si direbbe quasi che egli ripeta un modello di vita che fu dei suoi maestri anatomisti e fisiologi e che sarà ancora di molti uomini di scienza venuti dopo di lui, non esclusi taluni suoi discepoli. Non si allude qui soltanto alla operosità veramente instancabile e al significato che essa assume come norma etica nella vita individuale, ma allo stile di vita, alla morigeratezza persino fanatica, all'uso parco e schivo dei 'beni' della vita, d'altronde cautamente valutati. Il motto di Freud, in risposta a chi gli chiedeva che cosa considerasse importante nella vita, Arbeiten und lieben (lavorare e amare), suona pur sempre come l'epitaffio di una società borghese ben ordinata e sicura di sé, nonostante sia ormai ben chiaro quale significato eterodosso, se non addirittura sinistro, si debba attribuire al suo secondo termine, in seguito appunto all'opera di Freud.

È il suo aspetto sbiadito — convenzionale come la grigia facciata di quella casa a Vienna, nella Berggasse 19, dove lo trovò nel 1921 André Breton, andato a salutare il maestro spirituale della rivoluzione surrealista e capitato di fronte a un uomo incolore, quasi spento, passatista in cose d'arte e di letteratura.

Dickens, l'infanzia

Al di là di questo modello di vita, esso stesso rifatto su altri modelli, è l'infanzia stessa di Freud che ci viene incontro con un aspetto straordinariamente ottocentesco.

È il primogenito (dopo la partenza dei fratellastri per l'Inghilterra) di una famiglia ebrea semi-povera, semi-borghese, che punta tutto su di lui; studente, la sua vita è quella di un ragazzo che si prepara strenuamente a una futura professione liberale perché questa dovrà essere il risarcimento del sacrificio dei suoi. Sono gli anni trascorsi in una stanza «lunga e stretta, separata dal resto dell'appartamento, con una finestra che guardava'sulla strada”. «In tutti gli anni della scuola e dell'università”, racconta Jones, «l'unico cambiamento che avvenne in quella stanza fu la progressiva comparsa di scaffali zeppi di libri. Durante l'adolescenza egli consumò perfino il pasto della sera in camera sua, in modo da non perdere nulla del tempo dedicato allo studio. Aveva una lampada a olio per sé, mentre nelle altre camere da letto vi erano solo candele”. C'è qui, in uno stile dickensiano, il nucleo eroico di un ragazzo che sa di poter contare soltanto sulla cultura per compiere domani le sue gesta.

Cinquant'anni dopo, ne raccoglieremo ancora la vibrazione in un ricordo stranamente indiretto e quasi generico: «Il presente era allora come oscurato e gli anni dai dieci ai diciotto emergevano dai recessi della memoria con le loro intuizioni e i loro errori, i loro mutamenti dolorosi e i loro entusiasmanti successi, i primi sguardi su una cultura tramontata, che, perlomeno per me, doveva in seguito diventare una insuperata consolazione nella lotta della vita, i primi contatti con le scienze, tra le quali si credeva di poter scegliere quella a cui si sarebbero resi servigi di certo inestimabili. E mi pareva di ricordare che tutto quel tempo era stato percorso dall'intuizione di un compito che dapprima si era annunciato soltanto sommessamente, fino a quando potei dargli una voce, scrivendo nel mio tema di maturità che volevo, nel corso della mia vita, dare un contributo al nostro sapere umano. Ich bin dann Arzt geworden...”. La conclusione («e allora, sono diventato medico”) suona al nostro orecchio curiosamente appiattita, prosaica — come la fine di un ben intrecciato racconto in cui ci si chiede che cosa farà mai il protagonista, ora che dopo tante speranze e disperazioni è giunto al porto di una buona sistemazione borghese, sposato e stimato dottore.

Il frammento goethiano

Ma già nella scelta della professione di medico — al di là delle prevedibili ambizioni familiari che si concentrano in lui — c'è una nota insolita, quasi un richiamo più lontano e indistinto. Il 'bambino felice di Freiberg', il 'figlio prediletto di una giovane madre', diventato il ragazzo divoratore di libri dello Sperl-Gympasium, raccontò una volta di essersi sentito spinto agli studi di medicina dalla lettura pubblica di un frammento, La natura, ispirato, se non scritto direttamente da Goethe. «Da essa siamo circondati e avvinti — né ci è dato uscirne e penetrarvi più a fondo... Viviamo nel suo seno e le siamo estranei. Parla incessantemente con noi e non ci rivela il suo segreto... La sua corona è l'amore.' Soltanto con l'amore ci avviciniamo ad essa. Tutti gli esseri sono separati da abissi per opera della natura e tutti vogliono avvincersi.

Ha isolato tutto per ricongiungere tutto. Con qualche sorso dalla coppa dell'amore ricompensa una vita piena di fatica... Si nasconde in migliaia di nomi e di termini, ed è sempre la stessa...”. È l'essenza non indagabile, assoluta, ironica', nella cui vivente divinità riconosciamo le tracce del commento goethiano a Spinoza. Ed è anche, in nube, l'inquietante figura di madre o di sorella, ora angelica ora perversa, ora tenera ora distruggitrice, che erra in tante pagine del romanticismo tedesco. Nel liceale indeciso sulla scelta della scienza cui offrire i propri servigi, essa dovette ridestare un'eco lontana, sfuggente, e non potè morire, perché la vedremo emergere a poco a poco, con fatica, nel corso dei lunghi anni dedicati al noviziato scientifico.

Un giuramento materialista

Detto in modo semplice: non si può capire la scoperta della psicoanalisi se non attraverso il progressivo liberarsi di un uomo (e del suo lavoro) da un mondo di norme scientifiche e di valori culturali che egli stesso ha assunto nel corso della sua lunga educazione. Bisogna però intendersi con esattezza sul significato di questa liberazione. Nulla di miticamente demiurgico, nel senso di un rigido proporsi di mete, di contro al cosciente rifiuto di altre; il dramma si svolge per così dire senza voci e lo stesso protagonista sembra procedere a tentoni, scoprendo la propria strada nell'atto stesso in cui ritrova i segni sepolti di un suo precedente cammino. Non dunque il rispecchiamento in una propria immagine interiore, già fatta o in preparazione; ma l'interrogarsi sorpreso che precede e accompagna la decifrazione di una scritta dissepolta. In questo senso, anche il percorso scientifico che porta dal casto e fervente innamorato di una Natura indefinita al lucidissimo Freud della piena maturità passa attraverso una specie di lenta usura o consumazione di ogni fase evolutiva. Le sue prime comunicazioni risalgono al periodo d'università e hanno per argomento problemi di anatomia e istologia comparata. Fatto più volte notato: dopo aver scelto medicina, Freud si allontana immediatamente, e per molti anni, dalle ricerche cliniche — dall'uomo. Inoltra, ciò che colpisce chi oggi scorra quelle prime esercitazioni è uno sforzo di oggettività impersonale, che corrisponde abbastanza bene a quello che di solito si considera «stile scientifico”, ma che sembra aver perso ogni traccia dell'emozione di fronte alla natura percepita una volta nel frammento goethiano. Si direbbe di trovarsi di fronte all'accentuazione scolastica di quell'atteggiamento antivitalistico, nemico appunto della Naturphilosophie goethiana-schellinghiana, che era diventato l'articolo di fede, del resto di straordinario valore, della generazione di fisiologi a cui si accostò il giovane Freud.

È il famoso «giuramento” materialista della scuola di Helmholtz. «Gli organismi differiscono dalle entità materiali mobili prive di vita — le macchine — in quanto sono capaci di assimilazione; tuttavia si tratta in entrambi i casi di fenomeni del mondo fisico, cioè di sistemi di atomi, animati da forze, secondo il principio della conservazione dell'energia scoperto da Robert Mayer nel 1842, trascurato per vent'anni e poi divulgato da Helmholtz... Le cause reali sono espresse scientificamente con il nome di "forze"... che il progresso della conoscenza riporta a due sole: attrazione e repulsione. Tutto ciò si riferisce anche all'organismo uomo”.

Si è insistito a lungo su questa corazza materialista, meccanicista, indossata da Freud nel momento del suo noviziato scientifico e da lui gelosamente salvaguardata, fino ai suoi ultimi giorni, contro ogni «tentazione” spiritualista. Si rischierebbe però di fare opera del tutto tendenziosa svolgendo Freud unicamente in questa direzione, come ha fatto la prima critica di origine fenomenologica. La immagine profonda di una natura materna, viva e vicina all'uomo, in cui si traduce originariamente, come abbiamo visto, la sua vocazione per la scienza, coesiste sempre con la successiva impostazione intellettualistica; celata, repressa, sottomessa, si dimostrerà invincibile. Si potrebbe in questo senso parlare di uno specifico chiaroscuro freudiano, ineliminabile dalla sua opera, in cui emergono a poco a poco figure sempre più intime e distanti.

Lo studente incaricato di esaminare i testicoli delle anguille, o il midollo spinale dell'Amnocoetes Petromyzon, il giovane neurologo instancabile nelle osservazioni al microscopio, incarnano un «lavoro dell'intelletto” che uccide, disseziona la vivente natura. Ma l'eco che esso trova nel giovane anatomo è già significativa. «Sto per scegliere la mia vera professione”, scrive a un amico, W. Knöpfmacher, «tra quella di mutilare gli animali e quella di torturare gli esseri umani, mi vado decidendo ogni giorno di più in favore della prima”. In forma di scherzo paradossale, non emerge qui soltanto quella ripugnanza di fronte al corpo, che è così frequente fra gli studenti di medicina, e che dev'essere esorcizzata con lo sbeffeggio macabro, lo scherzo da sala anatomica. La scienza è vissuta come tortura, come effrazione del corpo — con un rovesciamento di posizioni, un'insistenza sull'aspetto penetrante, di astratta crudeltà dell'atto conoscitivo, abbastanza forzata, e rivelatrice di una successiva crisi. Non si spiega altrimenti la scarsa risonanza che desta in lui, nel 1882, la rinuncia, apparentemente provocata da difficoltà economiche, alla carriera di ricercatore nell'istituto di fisiologia diretto da E. Brücke; rinuncia contemporanea alla sua decisione di accettare, finalmente, la professione di medico che cura i suoi malati.

Come lo spirito curerà se stesso

A questo punto, la storia di Freud sembra risolversi per intero in quella serie di capitoli classici, legati fra loro da un filo puramente intellettuale, su cui ha costantemente insistito lo stesso protagonista nelle sue sobrie autobiografie. Nel 1885, attratto dalla fama internazionale della scuola neurologica di Charcot, si reca a Parigi con una borsa di studi e frequenta la Salpêtrière, dove il maestro francese ha attuato una prodigiosa rivalutazione dell'isteria, fino allora considerata poco più, o poco meno, di una consapevole mistificazione del soggetto nei confronti dei familiari e dei medici. Nell'ospedale in cui Pinel aveva tolto le catene ai pazzi, «Charcot rinnovava in piccolo l'atto di liberazione ricordato dal quadro... appeso alla parete”, garantendo la realtà dei fenomeni isterici, la loro presenza anche nel sesso maschile, e producendo attraverso la suggestione ipnotica paralisi e contratture in tutto simili a quelle della malattia. I disturbi isterici sono provocati essenzialmente da meccanismi psichici.

Tornato a Vienna, per curare i nevrotici che costituiscono la grande maggioranza della sua magra clientela è costretto a utilizzare le due sole armi dell'arsenale terapeutico di allora: l'elettroterapia e l'ipnosi. Rapidamente si accorge che la prima agisce soltanto per effetto della suggestione; la seconda ha perlomeno il vantaggio di liberare in apparenza il medico «dal sentimento della sua impotenza” e di lusingarlo con «la fama di ottenere guarigioni miracolose”. Allo scopo di perfezionare la sua tecnica ipnotica, alle cui manchevolezze attribuisce i suoi scacchi, si reca nel 1889 a Nancy, dove Liébault e Bernheim utilizzano su vasta scala l'ipnosi a scopo terapeutico. Lo colpiscono in modo particolare gli esperimenti di suggestione post-ipnotica: un soggetto al quale sia stato dato durante l'ipnosi un particolare compito, con il suggerimento di dimenticare l'ordine che gli è stato dato, una volta svegliato lo esegue come un atto spontaneo, senza ricordarne l'origine. Se però si insiste con lui perché ricordi l'ordine dato, spesso ci riesce: è così dimostrato che le motivazioni dei nostri atti non ci sono sempre note, quantunque sia possibile arrivare a conoscerle con un particolare sforzo. Ma l'ipnosi non soddisfa Freud, dà risultati a volte appariscenti ma transitori e che comunque incidono soltanto sul sintomo, sulla manifestazione più superficiale, non sul «meccanismo” morboso.

Decide perciò di ripetere il singolarissimo tentativo terapeutico di cui un suo amico, il dottor Joseph Breuer, l'aveva informato già nel 1882, prima ancora ch'egli andasse a Parigi. Si trattava di una ragazza, Anna O., che Breuer aveva curato per un paio d'anni a causa di un complesso quadro isterico. Per caso, Breuer si era accorto che lasciando esprimere liberamente alla ragazza le fantasie che le passavano per la mente, il suo stato migliorava sensibilmente. Aveva perciò deciso di sottoporre la ragazza a sedute ipnotiche, nel corso delle quali invitava la ragazza a comunicare liberamente ciò che in quel momento la opprimeva. In questo modo era risultato un nesso molto chiaro tra ciascun sintomo, apparentemente incomprensibile, e una viva impressione destata da un fatto passato, che allo stato vigile essa non ricordava. Il fatto di rivivere durante l'ipnosi questa impressione, attraverso il riemergere dell'incidente dimenticato, era sufficiente a far scomparire il sintomo stesso: da ciò il nome di metodo catartico dato alla curiosa procedura terapeutica da Breuer, o di talking cure (cura della conversazione), o metodo dello «spazzacamino”, datole dalla malata. Freud comincia perciò a usare l'ipnosi solo come mezzo per resuscitare le impressioni, ignote al paziente vigile, che sembrano essere all'origine dei suoi sintomi e dopo aver raccolto numerose osservazioni personali convince il riluttante Breuer a pubblicare con lui, nel 1893, una comunicazione preliminare intitolata Sul meccanismo psichico dei fenomeni isterici e due anni dopo, nel 1895, gli Studi sull'isteria, ai quali si fa risalire ufficialmente la nascita della psicoanalisi. Nel frattempo però è già andato molto più in là di Breuer.

Lo stato d'ipnosi, sul quale sembra fondarsi la rievocazione catartica, non si ottiene, o in misura insufficiente, in numerosi malati; per di più esso si accompagna a un rapporto personale molto intenso col medico, che non è possibile controllare. Decide perciò di rinunciarvi e di limitarsi a una tecnica di concentrazione: il malato, disteso su un divano a occhi chiusi, è invitato a comunicare ciò che ricorda a proposito del sintomo che si vuole eliminare; se nulla affiora, il medico gli appoggia una mano sulla fronte, suggerendo che ora di certo gli verrà in mente un'idea — appunto quella che si sta cercando. In questo modo Freud fa tesoro delle esperienze di Bernheim di cui abbiamo parlato: il malato sa — senza sapere di saperla — l'origine del suo male; si tratta di riportarla alla coscienza, di costringerla a rivelarsi. Questa costrizione sarà però ottenuta, paradossalmente, rinunciando a poco a poco, dopo l'ipnosi, anche a qualunque forma di sollecitazione, di suggerimento e persino di concentrazione. «Invece di costringere il paziente a esprimere qualche dato che sia in relazione con un tema determinato, lo invitiamo ad abbandonarsi all'"associazione libera"; cioè a manifestare tutto quello che giunge al suo pensiero, quando egli rinunci a guidare il pensiero intenzionalmente. Il paziente deve impegnarsi a comunicare veramente tutto ciò che gli offre l'autopercezione, senza cedere alle obiezioni critiche, che tendono a respingere alcune associazioni, o per mancanza di importanza e di connessione con il tema trattato, o perché prive di senso alcuno”.

Ë questo il «volo a grande altezza” di Freud, che fece dire a Breuer di guardare «a lui come la gallina al falco”. La nevrosi, d'ora in poi, parlerà in prima persona, e per comprenderla il medico dovrà semplicemente cercare di coglierne ogni parola, perché ogni parola è significativa.

Di questa novità fondamentale, non c'interessa qui cercare le innumerevoli radici storico-culturali, che del resto sono state più volte indicate. Ognuna di esse deve passare attraverso un centro, la persona Freud, il lento mutamento che si approfondisce in lui in questi anni; tant'è vero che alla sua «innovazione tecnica” — il metodo delle «libere associazioni” — non è possibile fissare una data precisa. Al primo sguardo, e superficialmente, il metodo è il trionfo del causalismo meccanicista che costituiva il giuramento della scuola di Helmholtz: tutto è rigidamente prodotto da cause ben determinate. Ma più profondamente — se ripercorriamo il lento cammino che va dalla soggezione ipnotica alla suggestione vigile, alla concentrazione attiva, vediamo emergere l'oggetto della cura, la nevrosi del catalogo naturalistico, come soggetto uomo, che ha in sé il suo significato; e parallelamente, Freud rinuncia ad ogni strumento di intervento diretto, apparentemente risolutore, si fa quasi passivo e distante, ascoltatore paziente di una natura «che parla incessantemente con noi”, come è detto nel frammento goethiano della sua adolescenza.

Resistenza, inconscio, sesso

Ma una natura che nello stesso tempo — e bisogna dirlo con forza contro ogni visione estatica — «non ci rivela il suo segreto” — se non attraverso una dura fatica, un lavoro continuo. Posto di fronte a un vuoto che soltanto lo sguardo dell'analista percorre, il soggetto immediatamente infrange la regola accettata del dire tutto: in infiniti modi si sottrae, obietta, tace, o parla per non parlare — resiste, si rifiuta di dar voce a zone penose o vergognose della propria vita. C'è dunque qualcuno o qualcosa che, contraddittoriamente, si difende contro l'emergere nella luce di una parte rifiutata, che la tiene celata alla coscienza chiara, un 'meccanismo difensivo' che si manifesta attraverso la resistenza. Donde la conclusione di Freud: questa 'forza' che ora si oppone, agendo come resistenza, al fluire delle associazioni, in definitiva al mutamento dello stato morboso, deve essere la stessa che lo ha generato. All'origine della nevrosi c'è dunque una lotta, un conflitto fra elementi in contrasto; la parte perdente è stata allontanata dalla coscienza ma preme continuamente per ritornarvi; ogni qualvolta vi è rottura dell'equilibrio l'elemento rimosso ritorna; dato però che la barriera oppostagli non cede completamente, esso si esprime attraverso formazioni di compromesso, i sintomi, che soddisfano precariamente le due parti in lotta.

Siamo di fronte al nesso chiave dell'intuizione freudiana, su cui si reggerà poi tutta l'immensa costruzione. Ed è essenziale notare come esso venga alla luce, con tutte le sue implicazioni, e trovi il suo fondamento di verità scientifica — e cioè in primo luogo la possibilità di ripetizione e di controllo — nella situazione sperimentale escogitata da Freud per la cura dei nevrotici. Così l'inconscio. Esso non è più definibile come luogo mistico o ricettacolo di una volontà o sapienza profonda, notte dell'anima universale — come nei pensatori a cui Freud è stato spesso accostato: Schopenhauer, Carus, von Hartmann. Ma invece si costituisce essenzialmente in rapporto a un rifiuto, come ciò che il soggetto nega alla propria vita e alla propria coscienza e che, negato, continua a sussistere e a riaffermarsi; come ciò, infine, che può rivelarsi soltanto attraverso un lavoro paziente che superi il primitivo rifiuto. Che cosa venga respinto, allontanato dalla coscienza — è un reperto di natura sperimentale, per così dire, legato alla storia del singolo uomo malato (e, in quanto tale, alla storia di tutti gli altri). È però vero che la variabilità storico-sociale è nello stesso tempo vischiosità, relativa costanza; per questo possiamo ancor oggi ritrovare in noi lo 'stupore' con cui Freud vide emergere lentamente, al di là della barriera della coscienza, l'essere mutilato, conculcato, che siamo costretti a chiamare corpo, con i suoi bisogni, i suoi desideri, le sue ramificanti fantasie. A questo viluppo di rapporti, che si sarebbe rivelato straordinariamente complicato, egli diede il nome di sessualità, scatenando così uno scandalo storico che si sarebbe rivelato tanto vasto e necessario immediatamente quanto, alla lunga, fonte di equivoci e di limitazioni.

Freud infatti non è un sessuologo alla Havelock Ellis o alla Krafft-Ebing, suoi stimati contemporanei, o alla Kinsey, per fare un esempio più vicino a noi. Il desiderio sessuale in senso stretto, in cui urta dapprima la sua ricerca e ch'egli è costretto a nominare, è il punto di confluenza finale di una serie di elementi disgregati, quasi polle sgorganti dall'organismo umano in fase di sviluppo, che ne esprimono la tendenza al piacere. In questo senso è giusto dire che Freud ha 'dissacrato' l'innocenza infantile, secondo la ben debole accusa dell'ipocrisia contemporanea; ma per restituire alla sessualità adulta, sia essa normale o deviata, il senso di una espressione totale della vita singola, in cui si riflettono lucidamente scacchi e violenze segrete subite dall'infanzia. Giungere a questo non è stato facile — e non per l'ostracismo violento quanto superficiale di cui Freud è stato vittima. È la nozione stessa di sessualità che esigeva il proprio rovesciamento. Il metodo catartico, abbiamo visto, sembrava presupporre il ritrovamento di uno specifico fatto traumatico, un episodio risultato insopportabile per la personalità vigile del malato e perciò allontanato dalla coscienza, rimosso. L'esigenza di un episodio di questo genere — in cui si condensa la feticizzazione positivistica del dato, e che sgorga dall'insegnamento charcotiano sulla cosiddetta isteria traumatica — si mantiene in Freud anche quando egli ha ormai compiutamente sviluppato il metodo delle libere associazioni. Dato che le difese principali del nevrotico riguardano l'ambito sessuale propriamente detto, occorrerà cercare di raggiungere il trauma sessuale che sembra essere all'origine dei suoi disturbi; la natura di questo episodio, insieme al modo di reagire del soggetto, determinano probabilmente il tipo di nevrosi sviluppato. È la tesi della seduzione sessuale del bambino da parte di un adulto (per lo più una persona della sua famiglia), che Freud generalizza, erroneamente, sulla base di alcune osservazioni di malati, sostenendola all'incirca dal 1893 al 1897. La sessualità è pur sempre una sporca faccenda degli adulti, e Freud ne arrossisce «pressapoco come fanno le pazienti in generale”, quando sono costrette ad affrontare certi argomenti.

L'autoanalisi

La svolta decisiva avviene nel momento in cui questo neurologo di quasi quarant'anni, precocemente ingrigito, padre di sei figli, comincia a esplorare se stesso con l'aiuto del suo nuovo metodo. Formalmente, sembra di trovarsi di fronte a quel movimento, classico nella storia della cultura, per cui la verità smarrita ricerca se stessa e si ritrova all'interno dell'uomo. Colpisce però subito una differenza di fondo. La ricerca freudiana è immediatamente antiaristocratica, spoglia di ogni privilegio o superiorità d'orgoglio. Egli tenta di farsi semplice ascoltatore di se stesso, lasciando riaffiorare, come nei suoi nevrotici, la parte calpestata, rifiutata. «Sto sperimentando su me stesso tutte le cose che, come testimone, ho visto svolgersi nei miei pazienti: vi sono giorni nei quali rinuncio depresso perché non ho capito nulla dei sogni, delle fantasie o degli stati d'animo, e altri giorni in cui un lampo di luce dà coerenza al quadro e ciò che è accaduto prima si rivela come una preparazione del presente”. E in un altro punto: «Alcuni tristi segreti della vita vengono così rintracciati fino alle loro prime radici, e così ci si può rendere conto delle umili origini di certi orgogli e privilegi”. Letteralmente, Freud diventa il paziente di se stesso, con una lucidità che apparirà più tardi, e non senza ragione, persino disumana («Il malato che oggi più mi preoccupa sono io stesso”).

In questo modo si stabilisce uno scambio continuo tra ciò che impara dai sue malati e ciò che ricava da se stesso. Se una volta ha scritto: «Per me è sempre un mistero quando non riesco a capir qualcuno nei termini di me stesso”, or può completare: «Posso analizzare me stesso solo con la conoscenza obiettiva mente acquistata (come se fossi un estraneo)...”.

E poiché i nevrotici s'imbattono spesse nel corso dell'analisi, in qualcuno dei loro sogni, e questi si rivelano in diretto rapporto con i loro problemi, cioè implicano un significato di desiderio sia pur distorto e mascherato — Freud annota i suoi sogni e si sforza di intenderne attraverso il suo metodo, le regole d'interpretazione.

È un momento di indicibile «bellezza intellettuale”, — per la prima volta la ragione esplora ciò che in apparenza le si è sempre opposto come antiragione quel caotico mondo della notte che, popolato di «angeli e servitori spirituali per Paracelso, è pur sempre stato sentito, secondo le parole di Novalis, come la nostra 'patria' più segreta. E infatti gli angeli — e i mostri — che popolano questa notte si rivelano a poco a poco familiari. Emergono rimproveri vaghi, qualcuno o qualcosa accusa Freud di non curare i suoi malati, di disintiressarsi dei suoi colleghi e dei suoi familiari, mentre egli si difende, inventa giustificazioni. Paradossalmente, il desiderio più forte ch'egli trova dentro di sé, sotto la chiusa scorza dei sogni, è quello di liberarsi di una colpa ancora sconosciuta. L'interpretazione però è circondata da sfingi enormi e ostinate e sembra voler portare alla paralisi di ogni altra capacità.

È la morte di suo padre, Jakob, avvenuta nell'ottobre 1896, che trasforma questa avventura intellettuale in qualcosa che coinvolgerà Freud fino in fondo. Questa morte non sembra all'inizio destare in lui un'eco di rilievo; si tratta di un vecchio di 81 anni, malato da tempo; nelle lettere, Freud enumera con precisione scientifica e apparente indifferenza le cause che l'hanno condotto alla fine. Ma quasi subito il quadro cambia, «Per una qualsiasi delle oscure vie nascoste dietro la kcoscienza ufficiale, la morte del vecchio mi ha colpito profondamente... Quando è morto, era da gran tempo un sopravvissuto, ma nell'intimo tutto il passato si è svegliato in tale occasione”. La notte dopo il suo funerale, Freud ha un breve sogno, che si condensa nella visione c un cartello bizzarro: Si prega di chiudere gli occhi. Chiudere gli occhi al padre morto, è un dovere filiale che Freud ha adempiuto — ma è arrivato tardi al funerale, e la sua famiglia è irritata con lui perché ha voluto che tutto avvenisse in modo «semplice e silenzioso”. Il sogno è perciò anche un invito all'indulgenza: chiudete gli occhi sulla mia colpa. Questa si delinea perciò come colpa verso il padre — di cui i colleghi, gli amici, i familiari introdotti nei sogni precedenti non sono che copie più o meno lontane, figure di sostituzione; nello stesso tempo, tra le maglie dei pensieri che si annodano intorno al tragico bisenso del sogno sembra affiorare una posizione di risentimento, di nascosta ostilità, che è riuscita ad esprimersi nelle disattenzioni così acutamente avvertite dai familiari (è arrivato tardi al funerale, tutto è stato così disadorno).

Nei mesi successivi — in un periodo di strenuo lavoro, fertile di nuove osservazioni e ipotesi — Freud continua attraverso lo schermo dei sogni questo discorso col morto, in cui egli è nello stesso tempo accusato e accusatore. Si acuisce una situazione di contrasto affettivo: a una tenerezza e nostalgia struggenti, che sorprendono lo stesso sognatore, si accompagnano inevitabilmente, come per un necessario contrappasso, accuse sempre più violente ed esplicite. In un sogno, giunge ad accusare il vecchio Jakob di ciò che per Freud è sempre stato in superficie motivo di aperto orgoglio: di essere ebreo, e di aver generato un ebreo, a cui per questo motivo sarà per sempre negato di diventare, in un ambiente antisemita come quello viennese, professore di università. Ancora più in là: la teoria della seduzione sessuale del bambino da parte di un adulto, che in questi anni, abbiamo visto, costituisce il centro della sua interpretazione delle nevrosi, sfiora per un momento la veneranda figura di Jakob.

Nell'aprile 1897, un'isterica gli riferisce distesamente ciò che suo padre, uomo «sotto altri aspetti ammirevole e costumato”, ha commesso su di lei bambina. Freud commenta laconicamente: Quod erat demonstrandum. Nel maggio ha un sogno in cui sembra trasparire un suo desiderio erotico nei confronti della figlia Matilde: ecco dunque la conferma suprema della sua teoria, che indica nel padre il responsabile della nevrosi dei figli. Io, Sigmund, sono colpevole verso mia figlia, come tu, Jakob, sei colpevole verso di me. Si giunge così all'estate del '97, in cui Freud si ritrova smarrito di fronte a questo morto e a se stesso, incapace di trovare la chiave del loro rapporto. Subisce «una specie di esperienza nevrotica, con strani stati d'animo incomprensibili: pensieri nebbiosi e dubbi velati, con qualche raggio di luce di tanto in tanto...”. «Non ho mai sofferto di una crisi intellettuale simile alla presente. Ogni riga che scrivo è una tortura”. La situazione sembra bloccata nel gesto di un bambino che accusa suo padre di averlo corrotto.

La soluzione verrà dopo mesi e mesi di angoscianti esitazioni, e ripeterà ancora una volta il movimento più caratteristico della genialità freudiana. Le accuse sempre più acerbe rivolte al padre coprono in realtà — e sempre meno — l'emergere ora indistinto, ora tumultuoso, di immagini e sogni nei quali si rispecchia uno straordinario mondo fantastico, quello di Freud bambino e del suo contraddittorio desiderio nei confronti dei genitori. E come prima egli ha ascoltato, col tremore del testimone, le accuse che infamavano suo padre, ora egli sa ascoltare la storia sepolta, inquietante, di se stesso bambino. Non il desiderio del padre, ma il bambino come essere di desiderio, è all'origine della nevrosi. Non una storia di seduzione adulta, ma i brancolanti tentativi di avvicinamento all'adulto; quel magma confuso di odio-amore per il padre e per la madre che trova nel mito di Edipo Re — uccisore del padre e sposo di sua madre — la sua prima, illuminante definizione. «Ogni membro dell'uditorio è stato una volta un tale Edipo in germe e in fantasia e da questa realizzazione di un sogno trasferita nella realtà ognuno si ritrae con orrore...”.

Edipo e suo padre

Come nei frammenti di uno specchio rotto, si ricompone così attraverso i sogni e i ricordi il viso vero del piccolo Sigi e dei suoi genitori. Quella straordinaria castità o frigidezza sessuale che, diventato adulto, stupirà i suoi amici e i suoi nemici, si rompe proprio alla sua origine e lascia intravvedere le voraci curiosità infantili — quelle, del resto, che ritrova nei suoi malati — sulle quali si è edificata. Nel buio della sua primissima infanzia appare per un momento la nudità di sua madre, la poco più che ventenne Amalie, moglie di un uomo che ha il doppio dei suoi anni. E questo uomo cambia volto: non è più il piccolo commerciante galiziano 'senza fortuna', sempre sull'orlo del fallimento, tanto ricco di battute di spirito quanto incapace di provvedere stabilmente ai bisogni della sua famiglia, l'uomo che alla sua adolescenza richiamerà amaramente l'immagine del dickensiano signor Micawber, quel «chiacchierone” sempre «invaso dal dolore e dalla mortificazione” di fronte ai suoi creditori, e che però «nello spazio di mezz'ora... si lustrava le' scarpe con grandissima cura e se ne andava cantarellando un motivetto con un'aria di distinzione maggiore che mai”. E non è neppure soltanto l'uomo — così somigliante a Garibaldi! — che a suo figlio decenne racconta come una volta, a Freiberg, un cristiano lo abbia schiaffeggiato ingiungendogli di scendere dal marciapiede e buttandogli il berretto nel fango. «E tu che cosa hai fatto?”. — «Ho raccolto il mio berretto”. (Sigmund promette a se stesso che non raccoglierà mai il suo berretto).

Più indietro ancora, nel cerchio compatto del mondo-famiglia, la figura di suo padre si fa curiosamente contraddittoria. Per un verso comanda, guida: egli è dunque l'usurpatore di Edipo. Ma per un altro aspetto egli sembra lontano, assente; una figura patriarcale e insieme puramente decorativa. Più viva e più forte appare nel ricordo di Freud la figura di Emanuel, il figlio del primo matrimonio di Jakob, che ha all'incirca gli stessi anni di Amalie, sua madre, e un figlio, John — più giovane di Sigmund — di cui però è nello stesso tempo lo zio. Edipo dunque non sa bene chi sia suo padre, chi sia l'usurpatore: paradossalmente, Freud realizza il mito più profondamente di ogni altro uomo: prima ancora di uccidere suo padre, egli ne va in cerca.

È necessario dire che già prima di giungere a questa conclusione, Freud ha taciuto, rendendo quindi ipotetica ogni ricostruzione. Ma non sembra dubbio che qui stia una delle segrete punte di consapevolezza che gli ha permesso infine di sciogliere, oltre al rapporto con suo padre, e nello stesso tempo, anche il legame di straordinaria intensità stabilito periodicamente con una figura che è insieme di amico, ispiratore, soccorritore. In primo luogo Joseph Breuer, lo scopritore del metodo catartico; ma soprattutto Wilhelm Fliess, un medico berlinese che nel periodo cruciale dell'autoanalisi svolge una parte essenziale come testimone prima e come parte in causa poi. In una lettera del luglio '97, Freud gli scrive: «Qualcosa dai più profondi abissi della mia stessa nevrosi è venuto ad impedirmi un'ulteriore comprensione delle nevrosi e tu vi sei stato, non so perché, in qualche modo coinvolto”. Egli andrà ben oltre quel non so perché-, ancora una volta scoprirà in sé ciò che si viene oscuramente rivelando anche nel trattamento dei malati. Non è la minuziosa ricerca e datazione del passato che di per sé ne dà la chiave e consente di superarne i punti morti, sopravvissuti nel presente; ma il lavorare insieme, quasi alla cieca, il discorso dapprima indistinto, poi sempre più chiaro e vicino che sorge tra il malato e il suo medico e nel quale confluiscono e si riconoscono tutte le voci del passato. Io penso di dover cercare nel sottosuolo il mio museo archeologico privato — e a poco a poco mi avvedo che esso si spalanca in piena luce nel presente mio e del mio testimone.

Mosé è un Egizio

Freud può ora dire di se stesso, come Montaigne nei suoi Essais, ciò che pochi uomini possono dire fino in fondo: che non ha fatto il suo libro più di quanto il suo libro non abbia fatto lui stesso. L'interpretazione dei sogni, che esce alla fine del '99, è il testo fondamentale della nuova scienza psicologica e, osiamo dire, nella nuova ragione; nello stesso tempo, e senza contrasto, esso nasce «come parte della mia autoanalisi, come reazione alla morte di mio padre, vale a dire all'evento più importante, alla perdita più sentita nella vita di un uomo”. Al pari della Psicopatologia della vita quotidiana, di poco posteriore, esso è veramente un libro 'consustanziale al suo autore', irripetibile; se la psicoanalisi — come scienza costituita e movimento della cultura — è ancora tutta da fare, è però certo che Freud non avrà più, come scrive nel terzo capitolo della Interpretazione, la consapevolezza liberatoria di «aver passata una gola”, di essere «pervenuto su un'altura dove le strade si dividono” e di trovarsi «nella luce di una conoscenza improvvisa”. È finita una sorta di prolungata infanzia, l'indugio di fronte a se stesso. Ma i conti non sono mai fatti; sotto questo aspetto, anche l'analisi che Freud conduce su se stesso è veramente unendlich, interminabile. È pur vero che d'ora in poi non ne troveremo più, se non di rado, l'espressione diretta nei suoi scritti; dovremo leggere in essi e attraverso di essi, quasi che, per paradosso, la verità si sia di nuovo velata, abbia assunto ancora una volta i modi dell'allusione e del mascheramento. Saranno soltanto gli indugi e le esitazioni a indicarcene le tracce disperse. Così nelle alternanze di entusiasmo e sfiducia che accompagnano la stesura di Totem e tabù (del 1913) ritroviamo l'eco, se non la ripetizione, delle difficoltà incontrate nel corso del lavoro degli anni '96-'97; e così è per i controlli ossessivi richiesti dalle ipotesi enunciate nel saggio II Mosé di Michelangelo (del 1914) e infine per i pentimenti, le giustificazioni, i ricominciamenti che si susseguono lungo tutto L'uomo Mosé e il monoteismo, uscito nel 1939 ad Amsterdam, pochi mesi prima della sua morte.

A distanza di decenni non ci è difficile cogliere "la radice personale di questa mai risolta inibizione. In Totem e tabù, la rivelazione angosciante della tragedia di Edipo, che Freud ha vissuto in prima persona, è semplicemente spostata alle origini dell'uomo, diventa il dramma originario dell'uccisione del padre dell'orda, di cui ciascuno dei figli uccisori fa poi un modello amato e temuto. «Dopo averlo eliminato, dopo aver placato il loro odio e soddisfatto il loro desiderio di identificarsi con lui, dovettero dar sfogo ai motivi affettuosi che erano stati sopraffatti. E ciò accadde in forma di pentimento...”. Nel saggio, di minuziosa analisi, dedicato all'opera di Michelangelo, l'insistenza concessa all'interpretazione dell'atteggiamento della statua e la caratteristica incertezza sul suo possibile significato tradiscono una difficoltà perenne a entrare fino in fondo nella parte di padre, dopo essere stato tanto a lungo un figlio in lotta col padre. E infine l'ultimo libro, quell'«addio tutt'altro che spregevole” dato dal «vecchio ebreo” ai suoi contemporanei nel momento in cui cominciavano il grande massacro, chiarisce fin nell'assunto iniziale — «togliere ad un popolo l'uomo che esso celebra come il più grande dei suoi figli”, facendo di Mose un egiziano — il conflitto di ambivalenza sull’essere ebreo che esisteva nel figlio di Jakob. È quasi banale dire che mentre era in atto la preparazione dello sterminio del suo popolo, Freud impotente sognava di mettersi alla sua testa come l'antico condottiero e di portarlo nel «paese buono e largo”. In questo egli è simile e compagno ai giovani ebrei che pochi anni dopo, a Varsavia e a Treblinka, sarebbero morti combattendo, rifiutando la secolare rassegnazione dei loro padri.

La sua immedesimazione con Mosé nasce anch'essa da un rifiuto — quello di raccogliere il berretto che un cristiano ha fatto cadere dal capo di suo padre, tanti anni prima; esattamente come la vocazione di Mosé nasce da una ribellione contro la secolare servitù («Essendo già divenuto grande, avvenne ch'egli uscì fuori a' suoi fratelli, e vide le lor gravezze; e vide un Egizio che percoteva un uomo Ebreo de' suoi fratelli. E... percosse quell'Egizio e lo nascose nel sabbione”). Ma questo rifiuto della posizione del padre — per poterlo salvare — sembra in qualche modo implicare il passaggio alla posizione del persecutore, un farsi Egizio, che Freud ha l'estrema onestà di confessare, sia pure attraverso le maglie dell'esitante discorso storico e religioso che viene svolgendo.

Il mito e la civiltà

Ci dobbiamo allora chiedere che cosa spinga Freud, negli ultimi decenni, a questa trascrizione mitico-simbolica di sé e della sua conoscenza. Sembra ch'egli sia costretto a ricorrere sempre più spesso all'evocazione, a un'immagine che suggerisca indirettamente. E nel suo modo di procedere avvertiamo qualcosa di goffo, di incerto — e insieme un accenno a una verità che supera la persona Freud, pur coinvolgendola.

È il suo rapporto con l'ambito della cultura che si è fatto via via più complicato. Nel suo lavoro quotidiano, egli ha sempre fatto e fa cultura, proprio attraverso ciò che la cultura tradizionale considera i déchets, i rifiuti abbandonati alla malattia — o all'irrazionale. Nello stesso tempo, e inversamente, il suo richiamo continuo all'opacità dell'infanzia, a quel destino di esitazioni e smarrimenti che pesa sul singolo uomo, introduce nella cultura un momento di critica, di sospetto d'origine, per così dire, di cui non potrà più liberarsi. Di qui nasce, anche, quel famigerato movimento di «riduzione” del sublime al comune, dell'illusione alla sua radice d'impotenza, che nella sua grossolanità immediata mantiene pur sempre il significato di una riserva ironica preliminare di fronte ad ogni valore astratto. Di questo senso continuamente desublimativo, deprezzativo, insito nel suo lavoro, Freud era perfettamente consapevole.

In una risposta del 1936 a L. Binswanger, che gli aveva inviato una copia di un suo discorso tenuto all 'Akademischer Verein für Medizinische Psychologie, troviamo scritto: «Leggendolo apprezzo la Sua bella dizione, la Sua erudizione, il Suo tatto nel contraddirmi. Lei sa che si possono sopportare quantità enormi di elogi. Naturalmente ancora non Le credo. Io mi sono limitato al pianterreno e alle fondamenta dell'edificio. Lei asserisce che quando si cambia il proprio punto di vista, si riescono a vedere anche i piani superiori nei quali risiedono ospiti di riguardo quali l'arte, la religione, ecc. In questo Lei non è il solo: molti tipi colti di homo natura la pensano come Lei. Nel caso specifico è Lei il conservatore e io il rivoluzionario”. Qui, appunto, è essenziale l'ironia, il distacco di chi guarda dal basso, dalle fondamenta dell'edificio. E qui, probabilmente, è anche uno dei momenti di affinità profonda con la critica della coscienza borghese elaborata da Marx una cinquantina d'anni prima, sulla base del disvelamento di un altro rimosso, l'inconscio socio-economico. Nel momento però in cui Freud si pone l'esigenza di riportare a un contesto generale ciò che ha trovato in sé e nei suoi malati — e questo avviene, in fondo, secondo un canone di valori assoluti ancora vigente in lui — insorgono oscillazioni e difficoltà caratteristiche. Come si passa da quest'individuo, questo e nessun altro, alla generalità degli individui? E come si origina ciò che in questo individuo viene ritrovato? La risposta prima di Freud — la più «scientifica”, e quella che un lettore superficiale ritrova di continuo — si basa su un'analogia nel primo caso e su una trasmissione (ereditaria) nel secondo. Gli uomini sono l'uomo, il gruppo l'individuo, senza inerzia né mediazioni che non siano rapportabili direttamente al singolo individuo. E ciò che si trova nel figlio fu nel padre e nel padre del padre, per passaggio di tracce che sono abbastanza inevitabilmente legate a aventi «traumatici”.

Non interessa qui cogliere le innumerevoli obiezioni che questo modo di procedere ha suscitato via via in sociologi, etnologi, filosofi. È invece interessante rilevare come esso sia in una certa misura in ritardo rispetto alla concezione della nevrosi che Freud viene elaborando nello stesso tempo. L'umanità bambina avrebbe vissuto eventi che, dimenticati, riaffiorano dopo secoli o millenni di latenza: il modello ch'egli propone alla storia dell'uomo sembra dunque implicare quella nozione di trauma infantile che ha eliminato dalla sua teoria della nevrosi individuale dopo la svolta del '97. E con ciò l'enorme carico di coercizioni e di divieti, di abitudini sedimentate nella pietra delle istituzioni, che l'umanità porta con sé, non potrebbe essere alleviato — perché radicalmente eterogeneo — da quell'apprendimento della «durezza della vita” che ognuno fa in prima persona. Gli strumenti concettuali di cui fa uso rischiano perciò di rivelarsi parziali, fuorviami, in quest'ultimo sviluppo della sua ricerca.

E seppure non mancano feconde riuscite sociologiche (Psicologia delle masse e analisi dell'io, del 1921), la psicanalisi della civiltà — il suo ultimo compito, in cui sembra finalmente appagata la sua «originaria ambizione” filosofica — può apparire semplicemente un'indagine ossessiva intorno a un fatto preistorico, che consenta l'eterno ritorno della storia come elemento rimosso. Sarà soltanto l'ambiguità del mito a consentirgli di esprimere, prima della scienza e non contro di essa, i significati nuovi che emergono dal suo lavoro e ai quali non sa dare una definizione precisa. Primo fra tutti la tendenza alla distruzione, al «ritorno all'organico”, che vede sorgere come una nube mortifera nel cuore stesso della civiltà, nel periodo delle guerre totali. La rivelazione di questa tendenza — che pare segnare la sconfitta definitiva di quella natura amorosa presente nella lontana immagine goethiana — avviene, in Al di là del principio di piacere, del 1920, attraverso il ritrovamento del mito di Eros e di Tanatos in lotta continua e incerta fra loro. Un'indicazione ben tenue e fragile, disarmata; come se fra tante corazze e armature di ferro, egli ci desse un semplice filo da seguire; ma un filo, ricorda Platone, che è duttile quanto il ferro è rigido, perché è un filo d'oro.